venerdì 12 novembre 2010

15 anni con Dino De Laurentiis. Il “lei” e il “tu”

«Buongiorno dottore, come sta?»
Queste sono le parole che ho rivolto a Dino De Laurentiis per più di 20 anni, dandogli sempre del “lei”, dal primo giorno in cui l’ho incontrato, a un party in quel di Beverly Hills nel 1984, quando, senza conoscermi, mi diede da tradurre il copione di “Conan the Barbarian”, fino all’ultimo incontro, in occasione della proiezione di un film, qualche mese fa.
Sono Roberto Croci, interprete parlamentare e traduttore al servizio di Dino De Laurentiis per quasi tutta la mia vita professionale. Avendolo incontrato alla tenera età di 24 anni, devo ammettere che mi ci sono affezionato a Dino. Per me è stato come crescere con quel nonno che avevo perso poco prima di incontrare lui. Il nostro rapporto è stato vero, paterno, amichevole, ma anche burbero, duro a volte, mai noioso. Il ricordo che porto nel cuore mi fa sempre venire il sorriso sulle labbra. È sempre piacevole pensare al dottore. Gli voglio bene, “che ce devo fa”, direbbe lui.
Ricordo il mio dialetto milanese spacciato per mandarino-cantonese in quel di Pechino mentre si girava “Tai-Pan”, prima produzione occidentale in Cina, per non parlare della sfuriata davanti a Rupert Murdoch dopo 24 ore di volo. In 15 anni di viaggi con “Mr. D”, sono passato da situazioni tragicomiche a momenti topici della storia del cinema, da Stephen King a David Lynch, dalla nudità gratuita e commericale di Madonna a quella artistica di Isabella Rossellini, dall’aver capito che Sam Raimi e “The evil dead” valevano 10 mila dollari di investimento, al non voler fare “Platoon”, nonstante avessimo Oliver Stone tutto per noi; dalla miopia di non volere Bruce Springsteen come attore, alla costruzione di North Carolina Film Corporation, primi studios all’esterno del circuito Hollywood; dai diritti per i libri di Thomas Harris, “papà” di Hannibal Lecter, all’Oscar alla carriera, che ho guardato in Tv piangendo felicissimo. Quegli Oscar erano per lui. Solo per lui.
La sua perdita non solo lascia un grande vuoto nel mondo del suo amato cinema, ma coincide anche con la fine di un’era che ha rappresentato, con tanti dei suoi film, il picco del Cinema Italiano. Del cinema di Fantascienza, dell’avanguarde neo-realista, del cinema blockbuster, del filone dei supereroi. Del cinema di Hollywood.
Più odiato e temuto che rispettato e amato, Dino ha sfornato capolavori ineguagliabili come “Riso amaro”, “Guardie e ladri”, “Europa ’51”, “La strada”, “L’oro di Napoli”, “Le notti di Cabiria”, “Barbarella”, “Serpico”, “Flash Gordon”, “Ragtime”, “King Kong”, per non parlare di “Conan il Barbaro”, a continuare con “Dune”, “Manhunter”, “Velluto blu”, “Ore disperate”, “Body of evidence”, questi ultimi, film dei quali abbiamo spesso discusso, parlato e anche litigato insieme, anche se Dino non solo non chiedeva l’opinione di nessuno, ma una volta presa una decisione andava per la sua strada. Quasi sempre diritta, senza guardare in faccia a nessuno. Anche quando si trattava della propria famiglia, del proprio passato e del proprio futuro. Anche quando sapeva il rischio che correva.
Era sempre una sfida, la solita.
Solo contro tutti.
A ragione o a torto, il “dottore” che ho conosciuto io si è si piegato, ma mai spezzato, anche nei momenti più bui, che fosse per il dolore privato della perdita di figlio, moglie e nipote, per un insuccesso cinematografico oppure per “na cazzata” come uno scudetto perso dal Napoli. Tralasciando gli spunti professionali, i premi e la carriera di Dino, mi piacerebbe farvi vedere, seppur brevemente, la persona-Dino, il padre, il marito, il cuoco. Dino in casa e in pantofole, nella giornata particolare di domenica, quando si concedeva totalmente al calcio e si lasciava andare a qualche peccato di gola. Da sentimentale, ho sempre apprezzato il fatto di essere il solo invitato da lui a guardare la diretta della partita. Arrivavo anche alle 4:30 del mattino, con Dino che mi aspettava sulla porta del cucinino; caffè, anche 2 o 3 volte nel corso del match, e anguria fresca a volontà. Si trasformava e diventava, per me, Dino-il tifoso, il nonno, l’uomo comune. Erano queste le uniche occasioni in cui osavo dargli del “tu”. Eravamo io e lui. Soli. Non ci disturbava nessuno, se non l’estetista, durante la pausa fra il primo e il secondo tempo, per la solita manicure e pedicure. E alla fine della partita, ecco arrivare di corsa Dina e Carolina, le due gioie della sua vita, oltre a Martha, la donna che amava più di ogni altra cosa.
Era quello il momento in cui, dopo aver ringraziato, mi alzavo e me ne andavo.
«Arrivederci Dottore, ci vediamo in ufficio».
Roberto Croci

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